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Certo, la battaglia sugli incentivi non è un gioco a somma zero in cui i giganti vincono e i nani perdono, né è il caso, data la difficile situazione economica, di scatenare battaglie tra lilliputziani: meglio lavorare per allargare la torta degli stimoli ad altri settori invece che cercare di rubarseli. Inoltre gli incentivi hanno code ben più lunghe sui territori italiani e nel primo pacchetto varato dal governo, a febbraio, qualcosa era previsto anche per l'arredamento e gli elettrodomestici. Il punto è che spesso in Italia, vista la platea pulviscolare della nostra impresa, tutto rischia di ridursi a semplice fumo statistico. Ad esempio, andate a chiedere ai componentisti auto - che quest'anno lasceranno sul campo oltre il 10% del fatturato - se non bisogna dare i soldi al Lingotto... La Fiat continua a valere la metà del fatturato nazionale di settore, pari a 40 miliardi, grazie a 2.200 imprese in trincea e 174mila dipendenti. Lo stesso Carroccio, elettoralmente fortissimo dentro queste classi d'impresa, resta double face sullo spinoso dossier: alle parole pubbliche di Roberto Calderoli («niente aiuti a Fiat»), fa da pendant la battaglia dei segretari leghisti da Torino a Cuneo, da Brescia al Nordest, dove arriva la scia dell'indotto Fiat, per strappare la cassa in deroga per Pmi e fornitori e, adesso, per la rottamazione. Altrimenti salta tutto.
Ci sono gli ammortizzatori, è vero. In questi mesi hanno tamponato le ferite del crollo degli ordini. «Ci sono ancora 2 miliardi a disposizione», ripete Giulio Tremonti. Adesso siamo allo step successivo perché o si riprende la crescita o la cassa diventerà per molti mobilità. Se a questo si aggiunge il credito difficile, anche a causa della bassa patrimonializzazione delle nostre Pmi, e il letargo del mercato tedesco, irretito dal torpore gran-coalizionale della lunga fase pre-elezioni in cui il governo Merkel, al di là di un po' di rottamazione auto, non ha varato stimoli fiscali alla domanda interna (il 50% dell'export italiano in Germania nasce dal Lombardoveneto), si capiscono bene le difficoltà del "calabrone" italiano.
«La parola d'ordine per il 2009 è stata crisi, quella 2010 sarà disoccupazione» s'immalinconisce Massimo E., un capannone nel novarese, dove produce vaschette alimentari insieme a 23 operai. «D'altronde le banche tengono i capitali in cassaforte e le grosse industrie chiedono sovvenzioni al governo e poi delocalizzano in Asia con i soldi delle nostre tasse...Voi pensate che continueremo ancora per tanto a sopportare queste condizioni?».